La Battaglia di Pavia
di Luigi Casali


Nella fredda e nebbiosa alba del 24 febbraio 1525 l’esercito francese guidato da Francesco I e quello ispano-imperiale comandato da Charles de Lannoy, viceré di Napoli, si scontrarono davanti a Pavia in una memorabile battaglia. Per il suo esito clamoroso, la cattura del re di Francia e la totale disfatta dei francesi, essa costituì l’episodio più importante e spettacolare del lungo conflitto tra Francesco I e Carlo V e si rivelò alla fine decisiva per le future sorti dell’Italia.



Gli antefatti

La guerra inizia nel 1521, dopo che Carlo d’Asburgo, già re di Spagna, è diventato imperatore del Sacro Romano Impero con il nome di Carlo V. Oggetto principale della contesa è ancora una volta l’Italia. I primi anni del conflitto sono sfavorevoli ai francesi che subiscono dure sconfitte e perdono il Ducato di Milano dove viene insediato Francesco II Sforza.

Nell’ottobre del 1524 Francesco I scende in Italia alla testa di un poderoso esercito, deciso a risolvere la guerra una volta per tutte. Gli ispano-imperiali, non disponendo di forze in grado di affrontare i francesi in campo aperto, decidono di abbandonare Milano e di ritirarsi oltre l’Adda lasciando però una forte guarnigione dentro Pavia, importante posizione strategica che controlla le comunicazioni della capitale del Ducato con Genova. Essi contano in tal modo di ritardare la travolgente avanzata francese e di guadagnare tempo prezioso per ricostituire un nuovo esercito. La difesa della città è affidata ad Antonio de Leyva, abile e risoluto soldato navarrese, fedelissimo a Carlo V, che ha sotto i suoi ordini circa 1000 spagnoli e 5000 lanzichenecchi.

Proprio come i comandanti imperiali sperano, Francesco I decide di assediare Pavia per completare con il suo possesso la conquista del Milanese. A questa decisione si sono opposti inutilmente i più accorti comandanti francesi, che hanno insistito per inseguire a fondo e distruggere definitivamente gli spagnoli in ritirata. Il re non ha tuttavia voluto sentire ragioni, influenzato anche dai consigli del suo grande amico Guillaume Gouffier signore di Bonnivet, ammiraglio di Francia.

Pavia agli inizi del Cinquecento

Già capitale del Regno Longobardo e del Regno Italico, rivale di Milano fino alla metà del XIV secolo, sede dell’illustre “Studium Generale utriusque iuris”, Pavia costituisce la gemma più preziosa dei domini sforzeschi. “Questa città è situata in tal maniera – scrive lo storico pavese Breventano nella sua “Istoria della antichità, nobiltà et delle cose notabili della città di Pavia – che rende di sé un dilettevole et meraviglioso spettacolo, et ha una bella prospettiva più che altra città che sia posta in un piano, et ha d’intorno uno eguale orizzonte…. Questo sito adunque della città per essere in parte dechino porge un gran diletto a riguardanti e specialmente a coloro che si trovano di là del Tessino… e rende di sé una bellissima prospettiva, si per la molto copia delle torri, tanto delle case private, quanto delle Chiese, le quali….erano in numero di più di centosessanta, come per la bella mostra, che fanno le chiese grandi e i palagi…”.

Sulla riva destra del fiume, su un’isola formata dal Ticino e da un suo ramo, il Gravellone, esisteva, come oggi, un sobborgo, chiamato di S. Antonio, collegato alla città per mezzo del trecentesco Ponte coperto.

La città era circondata da mura merlate, ancora del tipo medioevale, intercalate da torri e da dieci porte e protette da un fossato.

Sul lato nord delle mura si trovava, come ora, il Castello Visconteo, magnifica e solida costruzione a pianta quadrata voluta da Galeazzo II Visconti nel 1360.Decantato ed elogiato come una delle più belle fabbriche che a quei tempi si potesse vedere, era una magnifica residenza dove trascorrere lietamente il tempo tra svaghi e divertimenti di ogni genere.

L’assedio di Pavia

I francesi arrivano sotto le mura di Pavia verso la fine del mese di ottobre.

Le componenti del loro esercito sono eterogenee. La punta di diamante è costituita dalla cavalleria pesante corazzata, la Gendarmeria, che comprende la migliore nobiltà di Francia. La fanteria d’urto è formata a sua volta da picchieri svizzeri e dai lanzichenecchi della Banda Nera. Vi sono inoltre numerose compagnie di fanti francesi, di avventurieri italiani e di cavalieri leggeri. Si tratta in tutto di circa 28.000 uomini cui si aggiunge un parco d’artiglieria di 53 cannoni di vario tipo, un numero, per l’epoca, imponente.

Nei primi giorni i francesi lanciano numerosi assalti, tutti respinti. Francesco I deve così rassegnarsi a porre la città sotto assedio che inizia con il rigido inverno lombardo alle porte.

Le truppe svizzere si accampano a est di Pavia, Francesco I con i suoi gendarmi e la Banda Nera si dispongono a ovest, reparti di italiani e francesi occupano la riva destra del Ticino, a sud; una parte dell’esercito si accampa all’interno del grande Parco Visconteo che, suddiviso nel Parco Vecchio e nel Parco Nuovo, si estende, con un perimetro di circa 21 chilometri, dal lato settentrionale delle mura di Pavia fino alla Certosa. I due Parchi sono circondati e separati tra loro da un’alta e spessa muraglia di mattoni. Quasi al centro del Parco Vecchio si trova il castello di Mirabello, un magnifico casino di caccia fortificato. Il terreno del Parco, molto ondulato, è in parte coperto da boschi e tagliato da numerosi corsi d’acqua il più importante dei quali, la Vernavola, entra da nord e scende per un lungo tratto verso Pavia per poi piegare a est e gettarsi nel Ticino a valle della città.

L’assedio si prolunga per i lunghi mesi invernali senza che Pavia dia alcun segno di cedimento mentre le sortite dei difensori, i disagi e il freddo provocano molte perdite tra gli assedianti.

Gli ispano-imperiali hanno intanto formato un nuovo esercito, costituito da un poderoso nucleo di circa 12.000 lanzichenecchi, da 6.000 fanti spagnoli, da 3.000 italiani e da circa 3.000 cavalieri pesanti e leggeri, tedeschi, borgognoni e spagnoli. Comandante di questo esercito è il viceré di Napoli, Charles de Lannoy, coadiuvato da Carlo III di Borbone, ex-conestabile di Francia, e da Ferdinando d’Avalos, marchese di Pescara.

L’esercito imperiale si mette in marcia alla volta di Pavia nell’ultima settimana del gennaio 1525 e il 5 febbraio si accampa in vista del muro orientale del Parco. Al suo arrivo i francesi spostano il grosso delle truppe a est della città. Il re si trasferisce all’abbazia di San Paolo, mentre un contingente svizzero, comandato da Robert de La Mark, signore di Florange e la Banda Nera, guidata da Richard de La Pole, duca di Suffolk, e da Francesco di Lorena, conte di Lambesch, si accampano a ridosso del muro orientale. Una linea di fortificazioni campali viene eretta lungo il corso della Vernavola, dal punto dove questa esce dal Parco Vecchio e per un lungo tratto verso il Ticino.

Nelle tre settimane seguenti i due eserciti si fronteggiano in un crescendo di scaramucce, colpi di mano, imboscate e incursioni notturne, nelle quali gli imperiali, che hanno preso l’iniziativa, hanno quasi sempre la meglio. Tuttavia il tempo che passa senza che si produca alcun fatto decisivo favorisce i francesi che occupano posizioni molto forti e pressoché inattaccabili, dalle quali si guardano bene dall’uscire per accettare la battaglia che gli imperiali cercano continuamente di provocare. I comandanti di Carlo V si trovano infatti in gravi difficoltà per la mancanza di denaro con cui pagare i lanzichenecchi che minacciano di abbandobare l’esercito se non viene loro corrisposto entro breve tempo il soldo dovuto. Inoltre de Leyva chiede di agire al più presto poiché la situazione dentro Pavia diventa di giorno in giorno più difficile per la penuria di viveri.

L’attacco imperiale

Spinti dalla necessità i comandanti imperiali decidono di giocare il tutto per tutto. Scartata a priori l’ipotesi di un attacco frontale, il marchese di Pescara elabora un piano che prevede di entrare di sorpresa nel Parco Vecchio di notte e di occupare Mirabello, alle spalle dei francesi, per tagliare loro le comunicazioni con Milano e obbligarli così a combattere in campo aperto e in condizioni sfavorevoli. Tramite un ufficiale dei lanzichenecchi, che riesce a passare le linee nemiche, l’azione viene coordinata con gli assediati che dovranno a loro volta uscire dalla città e puntare su Mirabello.

Nella notte tra il 23 e il 24 febbraio gli imperiali levano il campo, caricano i bagagli sui carri e si avviano verso Lardirago, lungo la strada che costeggia il muro orientale del Parco. L’operazione viene coperta da alcuni reparti di fanteria leggera che distraggono l’attenzione dei francesi facendo rumore e tirando qualche colpo d’archibugio. Percorsi pochi chilometri, mentre il convoglio prosegue verso Lardirago, il grosso dell’esercito imperiale si accosta al muro del Parco, in prossimità di Due Porte, dove i guastatori spagnoli sono all’opera già da alcune ore per aprirvi tre brecce. Il lavoro, più lungo del previsto per la eccezionale robustezza del muro, termina solo sul far dell’alba, in ritardo sui tempi previsti dal Pescara. Frattanto l’avanguardia imperiale, agli ordini del giovane Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, composta da circa 3.000 archibugieri che indossano camicie bianche sopra gli abiti per distinguersi l’un l’altro nell’oscurità, è già entrata nel Parco e si dirige su Mirabello, coperta dal buio e dalla nebbia che ricopre la campagna.

I francesi, distratti dall’azione diversiva della fanteria leggera nemica, non si sono ancora accorti di nulla. Gli archibugieri di del Vasto raggiungono Mirabello quando ormai sta albeggiando e sorprendono i pochi soldati che vi si trovano e la variopinta folla di non combattenti di varia professione che, al seguito dell’esercito francese, è alloggiata, a seconda dello status sociale, nel castello o accampata nelle sue adiacenze. Sorpresi nel sonno, molti non hanno il tempo di fuggire e sono massacrati dai soldati imperiali che mettono a sacco ogni cosa. Del Vasto ristabilisce subito l’ordine e si attesta attorno al castello, in attesa di ricevere segnali da de Leyva.

Frattanto anche il grosso dell’esercito imperiale è entrato nel Parco e punta su Mirabello. In testa marcia il grosso della cavalleria seguita dalla fanteria spagnola e quindi dai lanzichenecchi tedeschi di Georg von Frundsberg e Merck Sittich von Ems.

La reazione francese

I soldati che sono riusciti a fuggire da Mirabello corrono a dare l’allarme. Francesco I e i suoi comandanti comprendono finalmente che quanto sta accadendo è qualcosa di più serio di una semplice “incamiciata” notturna. Le truppe immediatamente disponibili si dispongono in ordinanza da battaglia e l’artiglieria campale si muove per prendere posizione. Il re e forse 600 gendarmi con il loro seguito si dispongono sulla sinistra, lungo la Vernavola; il quadrato di circa 3.000 svizzeri guidato da Florange occupa il centro, la Banda Nera tiene l’ala destra; quattordici cannoni sono disposti tra le formazioni della cavalleria e della fanteria. Una riserva di circa 400 gendarmi agli ordini di Carlo IV, duca d’Alençon, si dispone in posizione arretrata verso Pavia. Altri 5.000 svizzeri sono lontani, verso il Ticino, e non possono intervenire immediatamente. Gli italiani delle bande di Giovanni de’Medici, assente perché ferito alcuni giorni prima, devono coprire la linea di circonvallazione a settentrione di Pavia per prevenire l’eventuale sortita degli assediati; alcune migliaia di soldati francesi e italiani, accampati a sud della città, oltre il Ticino, sono troppo lontani per poter prendere parte alla battaglia.

Mentre l’esercito imperiale marcia verso Mirabello quello francese risale verso nord per intercettarlo. Resisi conto che la sorpresa è in parte fallita, gli imperiali formano la linea di battaglia che ha sulla destra la cavalleria, al centro il quadrato spagnolo di circa 5.000 fanti e a sinistra i due quadrati di lanzichenecchi, ciascuno forte di circa 5.000 uomini. Il marchese del Vasto, non avendo ricevuto fino a quel momento alcun segnale da de Leyva e temendo di restare isolato, ha nel frattempo abbandonato la posizione a Mirabello e, ripassata la Vernavola, si è riunito al grosso dell’esercito con i suoi 3.000 archibugieri. Gli imperiali non dispongono di artiglierie in prima linea.

Di fronte all’intero esercito nemico i francesi non schierano al momento che i due quadrati di picchieri, lo svizzero e la Banda Nera, in tutto meno di 8.000 fanti, forse 3.000 cavalieri, compresi quelli della riserva di Alançon, e quattordici cannoni.

L’artiglieria francese inizia un nutrito fuoco che apre solchi sanguinosi nei massicci quadrati imperiali. Per ripararsi i fanti si stendono a terra, coprendosi negli avvallamenti del terreno. Frattanto Francesco I ha cominciato a muovere con la sua sceltissima schiera di gendarmi per incontrare il nemico la cui fanteria, nell’incerta luce dell’alba offuscata dalla nebbia e dal fumo dei cannoni, crede già scompigliata dall’artiglieria e prossima ad essere annientata dagli svizzeri e dalla Banda Nera. Dal canto suo il re brucia dal desiderio di misurarsi finalmente in campo aperto, faccia a faccia, con il nemico e vuole a tutti i costi giocare il ruolo decisivo della giornata per assicurarsi il merito principale della vittoria. Così, quando si trova di fronte la cavalleria imperiale non ha esitazioni e si lancia immediatamente alla carica seguito dai suoi cavalieri, perdendo in tal modo ogni contatto con il resto dell’esercito.

Il muro di ferro della Gendarmeria reale respinge la cavalleria imperiale che si ritira in disordine. Nel combattimento Ferrante Castriota, marchese di Civita Sant’Angelo, comandante di un reparto di cavalleria leggera, viene letteralmente tagliato in due, dall’alto al basso, da un tremendo fendente vibrato dal re di Francia. I francesi si fermano per far rifiatare i cavalli, sfiancati dalla carica e dal combattimento. Francesco I è raggiante. Ormai sicuro della vittoria, alza la celata dell’elmo e rivolgendosi a Thomas de Foix, signore di Lescun, che gli è a fianco, esclama la famosa frase: “Monsignore, adesso mi voglio chiamare Signore di Milano!”.

Sconfitta e cattura di Francesco I

Gli imperiali si trovano ora in una situazione pericolosa. La loro cavalleria è in rotta e la fanteria, immobilizzata dal fuoco dei cannoni, corre il rischio di venire attaccata frontalmente da quella nemica e di essere presa alle spalle e sul fianco destro dalla Gendarmeria reale. Quest’ultima, però, è rimasta isolata dalla propria fanteria ed è stata trascinata dalla carica nei pressi della Vernavola, su un terreno allentato, dove i grandi cavalli da battaglia gravati dal peso del cavaliere e dell’armatura si muovono a fatica e molto lentamente. Con abile intuizione il marchese di Pescara ordina allora che circa 1500 archibugieri spagnoli si spostino sull’estrema destra e battano con il loro fuoco i cavalieri nemici. I fanti si sparpagliano nei campi o si appostano tra la vegetazione lungo la Vernavola e da breve distanza cominciano a bersagliare i sorpresissimi gendarmi francesi con una fitta tempesta di piombo. L’effetto è devastante. Impossibilitati a reagire e a difendersi, i cavalieri cominciano a cadere, i più trascinati a terra dalla caduta dei loro destrieri, sui quali si concentra il fuoco degli archibugieri. I fanti si gettano quindi sui cavalieri atterrati, aprono loro la celata dell’elmo e li sgozzano con i loro coltelli oppure li finiscono con un colpo d’archibugio dopo aver infilato la bocca della canna sotto l’armatura. La cavalleria imperiale che, non essendo stata inseguita, ha potuto riordinarsi, si unisce al combattimento.

Le sorti della battaglia stanno intanto volgendosi a favore degli imperiali anche al centro e sulla sinistra, dove altri archibugieri abbattono gli artiglieri francesi facendo così tacere i cannoni. Esortati dai loro comandanti, i picchieri riprendono l’ordine di battaglia e avanzano per affrontare le fanterie nemiche.

Il primo scontro avviene tra i due grandi quadrati di lanzichenecchi e quello della Banda Nera. I lanzi imperiali odiano i “Neri” che considerano alla stregua di traditori perché sono venuti meno alla fedeltà verso l’Imperatore per servire il re di Francia; i “Neri”, da parte loro, secondo le parole di Paolo Giovio “reputavano cosa molto onorata servire con valore quel re che per molti anni li aveva generosamente pagati, mantenere fede al giuramento prestato e non far cosa alcuna che fosse indegna di vecchi e sperimentati soldati”.

L’esito dello scontro è comunque scontato. Con forze superiori di quasi tre a uno Frundsberg e Sittich von Ems allargano i loro quadrati sui fianchi della Banda Nera che dopo un accanito e feroce combattimento viene fatta letteralmente a pezzi. Quasi tutti i suoi componenti cadono nella mischia, compresi Richard de La Pole e Francesco di Lorena.

Gli spagnoli fronteggiano a loro volta gli svizzeri di Florange. Proprio quando stanno per entrare in battaglia questi ultimi vengono disordinati dai resti della Gendarmeria in fuga. Già impressionati dalla sorte toccata alla Banda Nera e fatti segno da un nutrito fuoco di archibugi che abbatte numerosi uomini, gli svizzeri si perdono d’animo e si sbandano, invano richiamati da Florange e dagli altri ufficiali..

Mentre il suo esercito viene disfatto, Francesco I ha continuato a battersi coraggiosamente circondato da una schiera sempre più esigua dei suoi cavalieri più fedeli. Alla fine, comprendendo inutile ogni resistenza, cerca anche lui scampo con la fuga. Un colpo di archibugio gli abbatte però il cavallo ed egli è trascinato a terra dalla caduta dell’animale sotto il quale resta imprigionato con la gamba sinistra. Subito assalito da soldati avidi di bottino, deve la vita alla sua armatura che resiste ai primi colpi e poi all’intervento di alcuni cavalieri spagnoli che allontanano la soldataglia e lo fanno prigioniero. Poco dopo arriva Charles de Lannoy al quale il re di Francia consegna la spada in segno di resa.

Quanto al duca d’Alençon, ritenuta ormai persa la giornata, anziché intervenire in aiuto del re, ha ritenuto più saggio ritirarsi con i suoi cavalieri verso sud e ha attraversato il Ticino sul ponte di barche gettato dai francesi a valle di Pavia.

La rotta del primo quadrato svizzero è seguita da quella del secondo. A battaglia ormai decisa quest’ultimo viene attaccato sul fianco da Antonio de Leyva che, uscito da Pavia, ha superato dopo una ventina di minuti la resistenza dei pochi soldati italiani di Giovanni de Medici. Scossi e disorientati gli svizzeri gettano a terra le armi in segno di resa e cercano scampo nella fuga dirigendosi verso il Ticino che contano di attraversare sul ponte di barche già utilizzato da Alençon. Li attende però un’orribile sorpresa perché questi, dopo aver passato il fiume, ha fatto tagliare il ponte. Insieme a lui sono riusciti a salvarsi gli italiani e i francesi che si trovavano già sulla riva destra del Ticino.

Inseguiti soprattutto dalla cavalleria leggera spagnola che non concede quartiere, molti svizzeri si gettano nel fiume dove annegano in gran numero, travolti dalla forte corrente.

Il trionfo imperiale

La battaglia è stata brevissima, poco meno di due ore ma la vittoria per Carlo V non può essere più completa e trionfale. La cattura del re, evento di per sé clamoroso e decisivo per le sorti non solo della battaglia ma anche della guerra, è completata dalla totale disfatta dell’esercito francese le cui perdite sono valutabili tra i 7000 e gli 8000 uomini, morti o feriti. Tra i primi vi sono il Bonnivet, Jacques de Chabannes, signore de la Palice, Louis II de la Tremoille, Galeazzo Sanseverino, Grande Scudiero di Francia, e numerosi altri cavalieri. I prigionieri sono alcune migliaia. Le perdite imperiali assommano a circa 700 uomini.

Francesco I viene portato prigioniero nel convento di San Paolo, quindi trasferito a Pizzighettone e da lì in Spagna.

Dei personaggi illustri catturati alcuni pagheranno forti somme per riscattarsi, altri, privi di mezzi, saranno presto rilasciati. I prigionieri comuni sono disarmati e lasciati liberi di tornare alle loro case. Vi arriveranno in pochi, specialmente gli svizzeri, in gran parte assaliti e trucidati dai contadini lungo il cammino.

La battaglia di Pavia porrà termine alla guerra solo momentaneamente. Questa riprenderà infatti dopo la liberazione di Francesco I e la stipulazione della Lega di Cognac tra Francia, Papato, Venezia e Sforza. Seguiranno anni orribili con altre battaglie, devastazioni e violenze di ogni genere ma lo scenario strategico generale delineato dalla giornata del 24 febbraio 1525 non subirà mutamenti. Nel 1535, alla morte di Francesco II Sforza, il Ducato di Milano diventerà una provincia spagnola.